Riassunto
Il sake non è più un prodotto di nicchia né un ricordo da ristorante etnico: oggi è una categoria in forte crescita, capace di generare valore in enoteche, ristoranti e cocktail bar. Lorenzo Ferraboschi di Sake Company spiega come inserirlo correttamente in carta, evitando improvvisazione su servizio, temperature, abbinamenti e racconto al cliente. Il sake apre nuove possibilità anche in mixology e vede nascere le prime produzioni italiane. Con la partnership tra Sake Company e Timossi, la formazione diventa la chiave per trasformare questa referenza in un vero asset commerciale.
Non è una moda passeggera, ma una categoria merceologica che cresce a doppia cifra. Lorenzo Ferraboschi ci spiega perché il sake è l’asset che manca nella vostra carta e, soprattutto, come evitarne una gestione amatoriale
C’è stato un tempo in cui il sake era solo quel liquido trasparente e bollente, servito in tazzine di ceramica sul finale di una cena a base di uramaki, spesso offerto dalla casa come digestivo. Quel tempo è finito. O meglio, sopravvive solo nei luoghi comuni che la ristorazione di qualità ha il dovere di abbattere. «Siamo appena alla punta dell’iceberg. Se pensate che il fenomeno sia esploso, sappiate che c’è ancora tantissima crescita da fare». A parlare è Lorenzo Ferraboschi, l’uomo che con Sake Company e la Sake Sommelier Association ha di fatto costruito i binari su cui viaggia la cultura del fermentato di riso in Italia.
Dal suo osservatorio privilegiato – che unisce i numeri dell’importazione alla visione della formazione – il dato che emerge è in controtendenza rispetto al mercato beverage: mentre altri settori faticano, il sake segna record positivi mese su mese. Ma attenzione: inserirlo in carta non basta. Serve metodo.
L’errore capitale: l’improvvisazione
Il primo nemico del sake in Italia non è il gusto del cliente, ma l’approssimazione del gestore. «L’e-commerce ha reso il consumatore finale molto più colto ed esperto. Oggi chi si siede al tavolo spesso ne sa più di chi prende la comanda» avverte Ferraboschi. Il rischio è servire un prodotto nobile come fosse un banale distillato da battaglia. La regola d’oro per chi vuole fare business con il sake è una sola: investire in competenza. «Se compri una bottiglia importante ma non sai raccontarla, non sai a che temperatura servirla o quale bicchiere usare, hai buttato via i tuoi soldi». Non serve un master universitario, ma un corso introduttivo (un investimento di circa 150 euro) è la soglia minima d’ingresso per non fare figure barbine.
Come servirlo: temperature, bicchieri e “Umami”
Dimenticate il dogma del “solo caldo” o “solo freddo”. Il servizio del sake è un’arte che gioca con la termodinamica. Ci sono tipologie che esprimono il meglio a 50 gradi e altre che vanno servite fredde in calici da vino bianco per esaltarne i profumi floreali. Sbagliare la temperatura significa uccidere il prodotto.
Ma la vera rivoluzione per il ristoratore italiano sta nell’abbinamento. Il sake non lavora per contrasto o per acidità come molti vini, lavora per concordanza sull’umami, il quinto gusto, quello della sapidità profonda. Ferraboschi cita l’esperienza della Milano Sake Challenge, dove il sake viene giudicato in abbinamento ai pilastri del Made in Italy: «Funziona in modo straordinario con il Parmigiano Reggiano, con la dolcezza grassa del Prosciutto Crudo di Parma o di San Daniele, con i funghi porcini e il tartufo». Capire questo passaggio permette di sdoganare il sake dal ristorante etnico e portarlo trionfalmente in trattoria, in enoteca o nel fine dining italiano, magari per accompagnare un piatto di formaggi o una battuta di carne, offrendo al cliente un’esperienza che il vino talvolta non riesce a dare.
La mixology: nuovi orizzonti nel bicchiere
Anche il bancone del bar sta vivendo la sua “Sake Renaissance”. Non più un ingrediente anonimo per cocktail esotici, ma una “finitura” di lusso. I bartender più attenti cercano sake specifici – non filtrati, invecchiati in botte di cedro (Taru), o crudi (Namazake) – per dare texture e profili aromatici inediti a twist su classici come Gin Tonic o Manhattan. È la ricerca di quel dettaglio che giustifica un prezzo premium e incuriosisce il bevitore.
Una curiosità dal futuro: il Sake “Made in Italy”
A testimoniare che i tempi sono maturi, c’è un segnale inequivocabile che arriva dalle risaie piemontesi. A Vercelli sono stati registrati ufficialmente due ceppi di riso specifici per la produzione di sake (Eusake 01 e 02), frutto di dieci anni di ricerca. Non solo: stanno nascendo le prime sakagura (cantine destinate alla produzione di sake) sul territorio nazionale, da Feltre fino al vercellese, dove un produttore giapponese sta aprendo la sua filiale europea. È l’inizio di una nuova era: il sake non è più un ospite straniero, ma un protagonista che sta mettendo radici, letteralmente, nel nostro territorio.
Il valore della consulenza: il metodo Timossi
Proprio per colmare questo gap culturale e trasformarlo in opportunità commerciale, Timossi ha scelto di non limitarsi alla pura distribuzione. La partnership con Sake Company va oltre il catalogo: è un percorso di formazione continua per la forza vendita, affinché l’agente non sia un semplice passacarte ma un consulente. «Nel caso di Timossi, veniamo noi fisicamente a spiegare agli agenti i sake disponibili in assortimento, dove stanno bene e come proporli» spiega Ferraboschi. «Perché vale molto di più un cliente che compra poco ma in modo consapevole, sapendo esattamente cosa sta mettendo in carta, rispetto a uno che fa il grande ordine e poi non sa cosa farsene». Affidarsi a Timossi significa quindi accedere a una selezione già filtrata e ragionata, ma soprattutto avere il supporto necessario per trasformare quella bottiglia con l’etichetta in kanji in un successo di vendita.
